Focus 03 Aprile 2020

Aspirina a basse dosi per ridurre il rischio di tumore
al fegato. Questi i risultati di una nuova ricerca

Utilizzare dosi ridotte di aspirina per diminuire la possibilità di sviluppare malattie che poi generino il tumore al fegato. Lo stabilisce uno studio condotto dai ricercatori del Karolinska Institutet, in Svezia, e del Massachusetts General Hospital che è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine.

L’indagine ha coinvolto oltre 50mila adulti affetti da epatite virale cronica, un’infezione del fegato generata dall’epatite di tipo B o C. Lo studio è durato otto anni e in questo periodo sia chi ha assunto aspirina a basse dosi, il 4% dei pazienti, che chi non l’ha assunta, l’8,3%, ha sviluppato il tumore. Tuttavia, chi aveva assunto aspirina aveva un rischio inferiore del 31%, un dato dovuto probabilmente all’azione che l’acido acetilsalicilico esercita nel ridurre l’infiammazione cronica correlata alla nascita dei tumori.

Già studi precedenti, infatti, avevano confermato una correlazione tra i benefici di un determinato paziente e l’assunzione prolungata di aspirina a basso dosaggio. Rispetto all’uso a breve termine (in un periodo che va da tre mesi a un anno) il rischio di tumore al fegato era al di sotto del 10% per uno-tre anni, che diventava del 34% da tre a cinque, fino addirittura al 43% per l’utilizzo che andasse dai cinque anni in su. In più, tra coloro che hanno assunto aspirina, nell’arco di 10 anni si sono registrati l’11% di decessi rispetto al 17,9% di coloro non l’aveva assunta, con un rischio al di sotto del 27%.

Come sottolineano i ricercatori, seppur incoraggianti, i risultati non possono cambiare la pratica clinica: sarebbe infatti prematuro prescrivere basse dosi di aspirina ai pazienti affetti da epatite virale con l’unica indicazione di prevenire l’eventuale insorgere del carcinoma epatocellulare senza il supporto di dati randomizzati: “C’è una forte evidenza che l’aspirina possa svolgere un effetto chemio-preventivo – spiega Jonas F. Ludvigsson del dipartimento di Epidemiologia medica e biostatistica del Karolinska Institute – ma andrebbe valutato con uno studio clinico controllato di fase 3 e non siamo ancora arrivati a questo punto”.

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