Focus 10 Novembre 2020

Covid-19, uno studio italiano spiega perché la presenza di antigeni HLA è correlata all’infezione

Gli antigeni HLA (il sistema genetico responsabile della regolazione del sistema immunitario nell’uomo e della risposta di rigetto) possono influenzare l’infezione da SARS-CoV-2 e una sua evoluzione clinica negativa. È quanto emerge dallo studio “HLA and AB0 Polymorphisms May Influence SARS-CoV-2 Infection and COVID-19 Severity” realizzato dalla Rete trapianti del Servizio sanitario nazionale, a cui hanno collaborato il Centro nazionale trapianti e tutti i coordinamenti regionali, e pubblicato sulla rivista Transplantation.

L’analisi retrospettiva è stata eseguita su una coorte italiana composta da pazienti trapiantati e in lista d’attesa in un periodo di tempo compreso tra gennaio 2002 e marzo 2020, incrociando i dati del Sistema informativo trapianti sul profilo genetico di ben 56.304 persone: il totale dei quasi 48mila pazienti con un trapianto d’organo funzionante realizzato in Italia dal 2002 a oggi e le oltre 8mila persone in lista d’attesa per un organo. Il match ha permesso di isolare, all’interno dell’intera popolazione italiana dei trapiantati e dei pazienti da trapiantare, 256 casi Covid-positivi e di analizzare nel dettaglio il possibile ruolo giocato nell’infezione da alcune caratteristiche del sistema immunitario come gli antigeni HLA e il gruppo sanguigno, informazioni abitualmente mappate nell’attività clinica trapiantologica. Dallo studio, infatti, è emerso anche che gli individui del gruppo sanguigno A sono a maggior rischio di infezione, fornendo indizi sulla diffusione della malattia e indicazioni sulla prognosi dell’infezione e le strategie di vaccinazione.

I risultati hanno evidenziato per la prima volta che la presenza della variante HLA-DRB1*08 nei soggetti analizzati è più frequentemente associata sia ai casi di positività, con un’incidenza all’incirca doppia, sia ai decessi per Covid-19, con una probabilità tre volte maggiore. Lo studio, dunque, suggerisce come questa particolare variazione genetica, presente nel 6% della popolazione italiana e maggiormente frequente nelle regioni del Nord (9%) rispetto a quelle del Sud (3%), svolgerebbe meno bene di altre varianti HLA il ruolo di attivazione del sistema immunitario nel riconoscimento del coronavirus.

Secondo lo studio, infine, nei pazienti trapiantati e immunosoppressi, e in quelli in attesa di trapianto per grave insufficienza d’organo, il rischio di infezione è circa 4 volte superiore rispetto al resto della popolazione.

“Questa ricerca può avere importanti implicazioni nell’identificazione di soggetti a maggior rischio di complicanze, perché geneticamente sono in possesso di armi immunologiche meno efficaci per difendersi dal virus – spiega il professor Antonio Amoroso, medico genetista dell’Università di Torino, coordinatore regionale per i trapianti del Piemonte e primo autore dello studio – Le indicazioni possono essere utili sia per il controllo della diffusione della malattia e la gestione della sua prognosi, sia per le strategie di pianificazione delle vaccinazioni, quando queste saranno disponibili”.

“Il nostro studio aggiunge un tassello significativo a quanto è stato già dimostrato circa i fattori che incidono sulla gravità delle manifestazioni cliniche del Covid-19, come età avanzata, sesso maschile e comorbilità – commenta il direttore del Centro nazionale trapianti, Massimo Cardillo  L’enorme mole di dati analizzati, sebbene in via preliminare, rende l’ipotesi sulle varianti HLA abbastanza valida. Di questo va dato atto all’intera rete italiana dei coordinamenti, dei centri di trapianto e di tipizzazione HLA, che non solo ha permesso il raggiungimento di questo risultato, ma sta offrendo sia in campo clinico che nella ricerca scientifica il proprio contributo alla lotta globale contro la pandemia”.