Epatite C nelle carceri, ecco il piano per far ripartire la ricerca del “sommerso” in otto istituti italiani
Un punto di riferimento per nuove politiche volte a far ripartire la ricerca del “sommerso” dell’epatite C nelle carceri italiane. È quello per cui si è candidata la SIMSPe (la Società italiana di malattie e sanità nei penitenziari) a sei mesi dall’emergenza generata dal Covid-19 e dalla conseguente situazione psichiatrica e infettivologica che si è creata all’interno degli istituti dove i trattamenti anti HCV sono calati del 90%.
Il progetto è partito in otto carceri già prima della pandemia (San Vittore a Milano, Sassari, Alghero, Civitavecchia, Genova, Salerno, Eboli, Vallo della Lucania) e su un campione di 2758 persone, divise in 46 sezioni detentive, sono state analizzate le cartelle di 2173 soggetti: il virus dell’epatite C è stato riscontrato nel 10,3%. Un risultato sostanzialmente positivo, visto che l’aspettativa era quella di una proporzione di 3 viremici su 4, quindi questo significa che molti hanno già iniziato la terapia nei Serd o nei centri specializzati.
Il tema è stato al centro del XXI Congresso Nazionale “L’Agorà Penitenziaria 2020” a Roma. Il periodo del lockdown ha interrotto il processo di eradicazione del virus, un ulteriore rallentamento dopo che, già a inizio anno, si stavano registrando le prime difficoltà nell’individuazione dei soggetti da trattare. I farmaci antivirali ad azione diretta stanno generando una vera e propria rivoluzione nella cura dell’epatite, con tempi rapidi e senza effetti collaterali. Tuttavia, una volta curati i pazienti di cui si conosce la patologia, rimane il problema del cosiddetto “sommerso”. Ecco perché, come ribadito nel corso del congresso, è necessaria una politica di screening rivolta alla popolazione chiave come tossicodipendenti e, appunto, detenuti: 71,5 sono i milioni di euro messi a disposizione dal Decreto Milleproroghe per l’accesso gratuito allo screening nel biennio 2020-2021, ma è necessaria un’applicazione entro la fine dell’anno.
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