Glicogenosi, cosa sono e quali rischi comportano al fegato
Se ne conoscono circa 20. Sono le glicogenosi, malattie rare caratterizzate dall’accumulo di glicogeno (una macromolecola del glucosio che funge da riserva energetica) a livello epatico e muscolare.
Si tratta di patologie che possono colpire, in pari misura, sia uomini che donne, con l’eccezione della glicogenosi tipo 11 legata al cromosoma X: nelle forme più aggressive che riguardano il fegato, compromettono seriamente la qualità della vita non solo dei pazienti, ma anche dei loro caregiver, vista la necessità di mangiare a intervalli molto brevi per evitare un decorso anche drammatico della malattia stessa. In particolare nei primi mesi di vita, la diagnosi non è semplice, il che comporta l’accumulo di glicogeno negli organi del bambini, con il cervello che inizia a soffrire e le conseguenze possono rivelarsi molto gravi. Tuttavia, grazie agli studi di genetica molecolare riuscire a individuare questa malattia oggi è più semplice: con i pannelli del “Next generation sequencing” è possibile, infatti, effettuare uno screening di tutte le condizioni e capire qual è la patologia specifica. La ricerca in questo ambito procede, oltre che sulla terapia genica, anche sull’utilizzo dell’RNA messaggero (mRNA): il coinvolgimento di associazioni di pazienti e genitori è fondamentale perché l’alleanza di questi attori è quella che sicuramente permetterà di dare le risposte migliori a chi ha più bisogno.
Ad oggi le glicogenosi di tipo 1A e 1B sono le forme metaboliche ereditarie che interessano il fegato, con un rischio del 25% di trasmissibilità da parte dei genitori che ne sono portatori. Sono patologie caratterizzate da un sintomo apparentemente banale, l’ipoglicemia, ma che in realtà è grave, perché mette in difficoltà il cervello. L’ipoglicemia, cioè l’abbassamento del glucosio nel sangue, si forma nel caso della glicogenosi di tipo 1A per la mancanza di un enzima, il glucosio-6-fosfatasi, e nel caso del tipo 1B per la mancanza di un trasportatore a esso connesso. Il glicogeno si accumula, soprattutto nei casi di tipo 1A e 1B, nel fegato, creando una situazione di fegato ingrandito con addome protrudente. Se il bambino ha necessità di mangiare molto spesso, circa ogni due ore, dovuta alla comparsa dell’ipoglicemia, bisognerebbe sospettare una glicogenosi. Con ulteriori esami di laboratorio, poi, si può identificare una sofferenza epatica e con indagini di tipo molecolare, confermarne il sospetto. Entrambe le glicogenosi, sia il tipo 1A sia il tipo 1B, si presentano allo stesso modo ma, con il passare del tempo, la seconda presenta una caratteristica specifica: la presenza di infezioni ripetute, ad esempio afte buccali, dovute a una grave neutropenia. Tutto ciò aggrava il decorso della malattia. Entrambe le malattie vengono diagnostiche con esami specifici, ma non essendoci uno screening neonatale, come accade per altre 50 malattie metaboliche ereditarie, il carico diagnostico è del pediatra.
Per il loro trattamento si parte con un approccio dietetico, che va a ridurre i tempi di digiuno e a prevenire l’ipoglicemia. Si possono usare zuccheri complessi, amido di mais o prodotti simili, che permettono un rilascio prolungato dei carboidrati. Nel tipo 1B si verificano frequenti infiammazioni dovute alla neutrofilia, per le quali è possibile intervenire farmacologicamente. per prevenire e diminuire questa sintomatologia. Oltre a questi trattamenti, può essere valutata l’ipotesi del trapianto di fegato. La glicogenosi di tipo 3, invece, ha una minore aggressività epatica che si bilancia con un progressivo coinvolgimento muscolare, soprattutto cardiaco. Gli episodi di ipoglicemia, che sono frequenti nei primi mesi di vita nelle forme di tipo 1A e 1B, nelle forme di tipo 3 possono anche non essere così gravi, ma con il passare del tempo compare l’interessamento cardiaco (ipertrofia miocardica) che può comportare perdita di funzione dell’organo. Anche per questa forma di glicogenosi, la terapia nutrizionale è un punto fondamentale per trattare la patologia, che però va modificata nel corso degli anni. Da una dieta ricca di carboidrati per prevenire l’ipoglicemia dei primi anni di vita, si può utilizzare una dieta chetogenica, una dieta cioè a forte percentuale lipidica per fornire un substrato energetico alternativo al muscolo.