Focus 21 Ottobre 2021

In Italia si muore meno di cancro rispetto all’Europa

Rispetto al resto dell’Europa, in Italia si muore meno di cancro. È quanto emerge da “I numeri del cancro in Italia”, il rapporto realizzato da AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), Registri Tumori Italiani, SIAPEC-IAP (Società Italiana di Anatomia Patologica e di Citologia Diagnostica), Fondazione Aiom, PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), Passi d’Argento e ONS (Osservatorio Nazionale Screening).

In base a quanto riportato dal documento, nel nostro Paese sono diminuiti i decessi per tumore e nel 2021 è migliorata anche la sopravvivenzaLe morti per neoplasie, infatti, sono state quasi 2mila in meno dello scorso anno. A calare nei maschi sono state quelle per cancro allo stomaco (-18,4%), polmone (-15,6%), prostata (-14,6%) e colon-retto (-13,6%). Aumentano invece nella popolazione femminile i decessi per carcinoma a vescica (+5,6%) e polmone (+5%), strettamente legati al fumo di sigaretta, mentre calano quelli a stomaco (-25%), colon-retto (-13,2%), ovaio (-9%) e mammella (-6,8%).

Un focus a parte lo merita la questione legata al tumore del fegato. Se è vero che in Italia si muore meno di cancro, è anche vero che nel 2020 le nuove diagnosi stimate di neoplasie epatiche sono state circa 13mila, con una sopravvivenza netta a 5 anni del 22% sia per gli uomini che per le donne. La possibilità di vivere per ulteriori 4 anni è condizionata, per il 40% dei pazienti di sesso maschile, dall’aver superato il primo anno dopo la diagnosi. Per le pazienti la percentuale è pressoché identica (39%). Ad oggi, si calcolano in circa 33.800 i pazienti che nel nostro Paese vivono dopo una diagnosi di tumore del fegato (25.300 uomini e 8.500 donne). Oltre il 70% dei casi di questi tumori primitivi è riconducibile a fattori di rischio noti, quali l’infezione da virus dell’epatite C (HCV) e da virus dell’epatite B (HBV). Nelle aree del Nord Italia circa un terzo dei tumori del fegato è attribuibile all’abuso di bevande alcoliche. Ulteriori fattori di rischio sono rappresentati da aflatossine (in particolare Asia orientale e Africa sub-Sahariana) assunte con alimentazione, emocromatosideficit di alfa-1-antitripsinaobesità (specie se complicata da presenza di diabete) e steatoepatite non alcolicaAnche il fumo di tabacco è stato riconosciuto tra i fattori di rischio.

Un impatto positivo sull’incidenza di questa patologia è riportato all’introduzione della vaccinazione anti-HBV e alle terapie antivirali per l’HCV. Un ampio studio epidemiologico nella popolazione con epatite cronica B e C ha evidenziato che l’utilizzo di basse dosi di acido acetilsalicilico era associato a un minor rischio di insorgenza di epatocarcinoma e di mortalità correlata alla patologia epatica. Questo dato richiede però conferma in uno studio clinico randomizzato. Imaging (ecografia, TC e RM), biopsia con esame istologico e dosaggio dell’alfa-fetoproteina nel sangue sono utilizzate nella diagnostica e stadiazione. La definizione del trattamento è correlata all’estensione (in particolare locale) di malattia e allo stato di funzionalità epatica. La Barcelona Clinic Liver Cancer (BCLC) Classification ha correlato gli stadi di malattia con la modalità di trattamento. Nello stadio iniziale i pazienti con sufficiente parenchima epatico funzionante possono essere sottoposti a trattamento chirurgico che si configura dalla resezione fino al trapianto di fegato. Negli stadi intermedi sono indicati trattamenti ablativi locali con radiofrequenza e di chemioembolizzazione attraverso catetere arterioso (TACE). Negli stadi avanzati di malattia i pazienti con buona funzionalità epatica (Child A) possono essere sottoposti a terapia sistemica. Il sorafenib, un inibitore multichinasico, è stato il primo farmaco che si è dimostrato attivo per via sistemica migliorando la sopravvivenza in questa patologia. Il lenvatinib, anch’esso un farmaco multitirosinchinasi inibitore, è stato confrontato con il sorafenib, mostrando uguale efficacia in termini di sopravvivenza, ma con un differente profilo di tossicità. La combinazione di atezolizumab, un checkpoint inibitore anti-PD-L1 con il bevacizumab, un anticorpo monoclonale anti-VEGF confrontato con il sorafenib ha dimostrato un significativo vantaggio in sopravvivenza (anche se, al momento della stesura di questo volume, tale combinazione non è ancora prescrivibile a carico del Servizio Sanitario Nazionale).