Rendina: “Le Steatosi epatiche non alcoliche
sono in aumento nei pazienti con trapianto”
“I pazienti trapiantati di fegato, nonostante siano sottoposti a regolari e frequenti controlli clinici, mantengono un rischio uguale a quello della popolazione generale di sviluppare la Steatosi epatica ed i fattori di rischio correlati (diabete, ipertensione e dislipidemia)”.
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La NAFLD (Steatosi epatica non alcolica) rappresenta la manifestazione a livello epatico della sindrome metabolica. La prevalenza di NAFLD è stata stimata intorno al 20-30% della popolazione generale nei Paesi Occidentali ma questo valore è sicuramente sottostimato nelle persone obese o che hanno diabete e comprende un ampio gruppo di malattie del fegato, che vanno dal fegato grasso (Steatosi epatica) alla NASH (Steatoepatite non alcolica), fino alla cirrosi ed al tumore del fegato.
“La Steatosi epatica – spiega a Epateam.org la dottoressa Maria Rendina, dell’U.O. Gastroenterologia Universitaria – Policlinico di Bari – è dovuta a diversi fattori riconducibili prevalentemente ad uno errato “stile di vita” da intendersi come “alimentazione errata” e sedentarietà. In particolare una dieta ipercalorica, l’eccessivo consumo di grassi saturi, carboidrati raffinati, bevande zuccherate, elevato consumo di fruttosio industriale ed una dieta di tipo occidentale sono certamente associati allo sviluppo di sovrappeso e obesità che sono tra i principali fattori di rischio della steatosi. Un’altra frequente associazione è quella con il diabete.
I dati epidemiologici degli ultimi 20 anni – prosegue Rendina – indicano un costante aumento delle patologie epatiche tra la popolazione con un trend in forte aumento per quelle correlate al dismetabolismo ed al cattivo stile di vita tanto che la NASH sta diventando la principale causa di Cirrosi epatica ed una causa importante di tumore del fegato oltre che la prima causa di trapianto di fegato.
La Cirrosi dismetabolica è passata dal 9,7% nel 2009 al 13,6% negli Stati Uniti come causa di trapianto.
Il rapido incremento di questa patologia rischia di determinare grandi cambiamenti nel mondo del trapianto di fegato in quanto potrebbe impattare significativamente sia sul versante dei donatori che dei riceventi. La presenza di steatosi nel fegato dei donatori può, se di grado elevato, condizionare una non ottimale funzione dell’organo e quindi condizionare una limitazione del numero di organi disponibili. D’altra parte, il ricevente con Cirrosi dismetabolica, rappresenta un paziente ad elevato rischio operatorio per la concomitanza del diabete, della dislipidemia che sono ben noti fattori di rischio cardiovascolare.
I pazienti con Cirrosi dismetabolica, non solo possono, dopo il trapianto, essere affetti dalla recidiva della malattia di base anche per il concomitante utilizzo di farmaci antirigetto che favoriscono il dismetabolismo ma, soprattutto, possono sviluppare la malattia “de novo” dopo il trapianto.
Questo è dimostrato da una recente revisione sistematica della letteratura condotta dall’Unità di Gastroenterologia Universitaria del Policlinico di Bari in collaborazione con l’Unità di Gastroenterologia dell’IRCCS di Castellana Grotte che ha valutato 12 Studi che avevano arruolato complessivamente 2.166 pazienti con trapianto di fegato sottoposti a biopsia epatica.
La prevalenza della Steatosi non alcolica “de novo”, quindi non presente prima del trapianto, è risultata essere del 26% mentre il 2% dei trapiantati avevano una NASH. La malattia era più frequente nei pazienti che avevano avuto bisogno del trapianto per una cirrosi alcolica o da causa sconosciuta.
Pertanto, i pazienti trapiantati di fegato, nonostante siano sottoposti a regolari e frequenti controlli clinici, mantengono un rischio uguale a quello della popolazione generale di sviluppare la Steatosi epatica ed i fattori di rischio correlati (diabete, ipertensione e dislipidemia). La rapidità maggiore con cui la malattia si manifesta nel fegato trapiantato e la correlazione con disfunzione del graft ed eventi cardiovascolari, suggerisce la necessità di implementare attente e rigorose misure dietetiche in questa popolazione di pazienti a rischio”.