L’intervento

Il trapianto di fegato è approdato in Italia agli inizi degli anni ’80, quando ancora era – in tutto il mondo – una pratica sperimentale.

Nel tempo la selezione del ricevente, l’intervento chirurgico, la terapia post-trapianto sono state standardizzate ed oggi il trapianto epatico è un’offerta terapeutica “normale” per epatopatie acute terminali, croniche progressive e per alcuni tipi di tumori epatici (soprattutto epatocarcinoma).

I benefici sono riconosciuti da un’ampia letteratura medico-scientifica, anche se l’intervento non è privo di rischi considerata l’alta complessità operatoria.

È possibile stimare la durata della procedura in un arco di tempo compreso tra le 6 e le 12 ore e in base a 3 fase ben distinte tra loro:
–  la rimozione dell’organo malato
– la cosiddetta fase anepatica (il fegato non più funzionante è stato asportato chirurgicamente e il nuovo organo non è stato ancora trapiantato)
– il trapianto vero e proprio mediante la ‘ricongiunzione’ dei vasi sanguigni (arteriosi e venosi) e delle corrispondenti vie biliari.

Relativamente a quest’ultimo aspetto, preme rammentare come i recenti progressi ottenuti in ambito chirurgico consentano oggi di applicare le tecniche impiegate nelle resezioni convenzionali del fegato proprio alla procedura da trapianto.

In considerazione di ciò è possibile ‘dividere’ il fegato del donatore in due porzioni e trapiantarle in due persone diverse in modo che entrambe funzionino in maniera indipendente e corretta e riuscire ad ampliare il numero dei trapianti a parità di numero di donazioni.

Questa metodologia –  concepita inizialmente per favorire il reperimento di organi di dimensioni congrue per il trapianto di fegato nei bambini – è stata via via adottata anche nei pazienti adulti ed è riconosciuta con il nome di tecnica split.


Concluso l’intervento, il paziente viene generalmente trasferito all’interno del Reparto di Rianimazione e Terapia Intensiva.

Questo ‘passaggio’ consente di garantire al malato un periodo di stretta sorveglianza sanitaria mediante apposito monitoraggio post-operatorio.

Al momento del risveglio, il paziente noterà alcuni drenaggi addominali e un tubicino (chiamato tubo di Kehr) la cui funzione è quella di assicurare la fuoriuscita della bile.

Avvertirà inoltre la presenza di un piccolo tubo inserito attraverso il naso o la bocca così da aiutarlo nella respirazione fino a quando le condizioni fisiche non gli permetteranno la piena autonomia funzionale. Ci saranno anche alcuni cateteri vascolari per favorire il monitoraggio, le infusioni ed i prelievi di sangue.

Infine si accorgerà di un sondino naso-gastrico – indispensabile alla ‘rimozione’ delle secrezioni provenienti dallo stomaco – e del catetere vescicale atto a favorire la diuresi.