Focus 06 Ottobre 2023

La steatosi epatica (o fegato grasso) colpisce di più le donne: uno studio italiano spiega quali sono le cause

Le donne in menopausa hanno una predisposizione maggiore degli uomini a contrarre la steatosi epatica, ossia la variante più aggressiva del fegato grasso. Non si tratta di un fattore puramente statistico ma c’è una spiegazione scientifica precisa dietro la maggiore incidenza della malattia sul sesso femminile.

A rivelare qual è la connessione sono stati i ricercatori del Policlinico e dell’Università statale di Milano che sono riusciti a tratteggiare una sorta di identikit di questa variante, studiandone l’interazione in relazione al sesso e scoprendo i processi molecolari che sono alla sua base. Causata da un accumulo di grassi in eccesso nel fegato che innesca uno stato di infiammazione cronica, la steatosi epatica rappresenta la principale malattia del fegato nel mondo e colpisce in misura maggiore le donne con un’incidenza che si mostra in crescita. Sono diversi i fattori che provocano l’insorgenza della patologia: gli stili di vita, i regimi alimentari scorretti, alcune patologie quali diabete e obesità, la predisposizione ereditaria, l’aumento di colesterolo e trigliceridi, l’ipertensione arteriosa e il sovrappeso. A rendere la malattia ancora più temibile c’è la concorrenza di due fattori: la silenziosità della patologia e l’assenza di terapie che contrastino la progressione della malattia.

Secondo le previsioni degli esperti, tra una decina d’anni il fegato grasso sarà la principale causa di cirrosi, trapianto e tumore al fegato soprattutto tra le donne. Queste in età fertile sono “protette” dagli estrogeni ma dopo la menopausa alcune di loro sono colpite dalla forma più grave. La ricerca ha consentito di approfondire questa connessione.

Con la partecipazione di diversi centri internazionali di ricerca, gli scienziati milanesi hanno studiato complessivamente oltre 4000 pazienti e una coorte di quasi 5mila donatori di sangue che fanno parte dei programmi di prevenzione cardiometabolica della medicina trasfusionale del Policlinico di Milano.

“Grazie a moderne tecniche di laboratorio, come sequenziamento genetico di nuova generazione, organoidi e Crispr-Cas9 – spiegano i ricercatori – è stato possibile mettere in evidenza un’interazione specifica tra il sesso femminile e la variante genetica Pnpla3 p.I148M nel determinare l’insorgenza e la severità della steatosi epatica non alcolica”. Studi precedenti avevano già dimostrato che questa mutazione, a causa della produzione di una proteina alterata, non è in grado di eliminare i trigliceridi negli epatociti. I ricercatori hanno però osservato che la proteina Pnpla3 mutata è presente soprattutto nel fegato delle donne rispetto a quelli degli uomini e questo avviene per la presenza di una specifica sequenza di Dna di questo gene, alla quale si legano i recettori degli estrogeni, che inducono l’espressione del gene Pnpla3 anche in presenza di bassi livelli ormonali.

“Con le modificazioni ormonali e metaboliche legate alla menopausa, dunque – dicono i ricercatori – il rischio di steatosi epatica aumenta nelle donne portatrici della variante p.I148M che causa un accumulo nelle gocce lipidiche delle cellule del fegato, portando a infiammazione e formazione di tessuto cicatriziale (fibrosi epatica)”. Questo studio, pubblicato dalla rivista “Nature Medicine”, rappresenta un passo in avanti verso la medicina di precisione. Per Alessandro Cherubini, ricercatore della Medicina trasfusionale e primo autore dell’articolo, lo studio, infatti, “oltre a definire un meccanismo molecolare chiave nella progressione della steatosi epatica nelle donne, suggerisce nuovi trattamenti terapeutici che tengono conto sia della variabilità genetica che della storia clinica del paziente. Questi nuovi approcci di medicina di precisione potrebbero rivelarsi particolarmente efficaci nelle donne che sviluppano la steatosi soprattutto dopo la menopausa”. Luca Valenti, professore associato di Medicina interna della Statale di Milano e responsabile del Centro di Risorse biologiche del Policlinico, che ha guidato i ricercatori, sottolinea “l’importanza di coinvolgere, insieme a grandi collaborazioni multicentriche e biobanche capaci di raccogliere i dati genetici di vaste popolazioni, i donatori di sangue nei progetti di ricerca sulle patologie di natura genetica e metabolica. Le coorti di donatori, oltre a fornire dati di riferimento fondamentali per gli studi genetici, permettono di monitorare e definire le fasi subcliniche delle malattie, facilitando la progettazione di programmi mirati di prevenzione e terapia”.