Focus 15 Giugno 2020

Steatoepatite non alcolica, una ricerca spiega come l’antidiabetico semaglutide può essere efficace

L’antidiabetico semaglutide, grazie ai risultati di fase II, si candida sempre di più come cura per la steatoepatite non alcolica (Nash). Lo stabilisce uno studio americano del Niddk (il National institute of diabetes and digestive and kidney diseases), secondo cui negli Stati Uniti il 30-40% degli adulti soffre di steatosi epatica non alcolica e il 20% di questi è invece vittima di Nash.

Nella fase II della ricerca, il Glp-1 semaglutide, utilizzato per il diabete, ha raggiunto l’endpoint nella risoluzione della steatoepatite senza coinvolgere la fibrosi epatica, raggiungendo i migliori risultati mai dimostrati fino a oggi. Da qui verrà tracciato il percorso migliore per le sperimentazioni cliniche anche in fase avanzata. L’indagine ha coinvolto 320 pazienti, di cui 230 con fibrosi in stadio F2/F3 a cui è stata somministrata una dose variabile di semaglutide: 0,1, 0,2 e 0,4 meg. I dosaggi con percentuale maggiore hanno visto la risoluzione dei sintomi della Nash e un miglioramento dell’infiammazione epatica senza compromettere la fibrosi a differenza dei pazienti trattati con placebo.

Dopo 72 settimane di terapia, il 59% non ha avuto peggioramenti e nel complesso tutti i dosaggi hanno superato il placebo nella risoluzione della steatoepatite: tra coloro che hanno ricevuto somministrazioni di 0,1 lo stesso obiettivo è stato ottenuto dal 40% e tra quelli che hanno ricevuto il dosaggio di 0,2 dal 36%.

Un fattore da non sottovalutare, per gli sviluppi futuri, è quello relativo agli effetti collaterali. In uno studio sull’obesità, infatti, che ha visto la somministrazione giornaliera di semaglutide, tra il 12 e il 17% dei pazienti interessati ha dovuto interrompere la terapia per problemi gastrointestinali come vomito e diarrea.